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Wto: fallito il vertice occorre ripensare il 'mercato' e lo 'sviluppo'
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Non sono bastati nove giorni e nove notti per arrivare a un accordo che accontentasse tutti o almeno non scontentasse i più. Pascal Lamy - direttore generale dell'Organizzazione Mondiale per il Commercio (World Trade Organization, WTO) - ha ammesso il fallimento dell'ennesimo round della Doha Development Agenda: "Dovremo far calmare un pò le acque - ha dichiarato a proposito di futuri negoziati del WTO - le divergenze inconciliabili tra alcuni Stati membri hanno reso impossibile un accordo". Si è concluso con un giorno di anticipo - rispetto alla tabella di marcia - l'incontro tra i rappresentanti di Stato e di Governo riuniti a Ginevra per chiudere i negoziati aperti nella capitale del Qatar nel novembre del 2001, con l'obiettivo di trovare delle soluzioni che favorissero lo sviluppo economico dei paesi poveri liberalizzando il commercio mondiale. Ma a 7 anni d distanza però nulla sembra essere cambiato.
Secondo Tradewatch (Osservatorio italiano sul commercio internazionale) "la crisi economica e la crisi alimentare hanno messo a nudo l'ipocrisia dei grandi players dell'economia globale, vecchi e nuovi. Dal fallimento della ministeriale di Cancun nel 2003, assistevamo al solito teatrino nel quale le grandi potenze e i Paesi emergenti si accusavano reciprocamente di mancanza di ambizione: chiedevano ingenti aperture dei mercati, senza poi a loro volta concederle. Anziché affrontare le questioni chiave per far sì che le regole commerciali lavorassero a sostegno dello sviluppo dei Paesi poveri, tutta la contesa si è ridotta alla sola questione dell'accesso al mercato nel settore agricolo, dei servizi e dei prodotti industriali. Ma c'è un mondo fuori, e ha detto no".
Per Marco De Ponte - segretario generale di ActionAid Italia - "la necessità di una leadership mondiale capace di affrontare cruciali nodi della politica mondiale è sempre più evidente. Quello del WTO - continua De Ponte - è solo l'ultimo di una serie di appuntamenti internazionali che non hanno saputo adottare significative decisioni per affrontare questioni delicate come quelle dell'agricoltura e della crisi alimentare globale, a partire dal Vertice FAO del giugno scorso, passando per il G8 di Toyako".
Sergio Marelli - presidente dell' Associazione Ong italiane - non sembra sorpreso dalle difficoltà del vertice: "che lo scoglio più difficile fosse quantificare i livelli di protezione per gli agricoltori, ossia dare esatti valori percentuali alle riduzioni di dazi e sussidi era del tutto prevedibile ma non che questo fosse ancora una volta la causa del fallimento del negoziato. Ancora una volta speravamo che la responsabilità dei Governi, dei Paesi industrializzati come di quelli cosiddetti emergenti, prevalesse sugli interessi particolari e di breve termine. Ora - aggiunge Marelli - l'unica certezza è che a trarre i maggiori vantaggi dal fallimento saranno ancora una volta gli agricoltori dei Paesi industrializzati, USA e UE in testa che continueranno a ricevere sussidi alle loro produzioni ed esportazioni. L'apertura dei mercati e la liberalizzazione del commercio - precisa - sono teorie sempre evocate ma applicate solo quando avvantaggiano le economie dei Paesi ricchi. L'eliminazione totale dei sussidi alle esportazioni agricole, prevista negli accordi della OMC per il 2013, sembra diventare l'ennesima chimera rischiando di perpetuare le pratiche nefaste di dumping che soffocano le economie e danneggiano la capacità produttiva di Paesi già vulnerabili".
I paesi emergenti chiedono con insistenza a Washington e Bruxelles di aprire i loro mercati ai prodotti provenienti dal Sud del mondo e di porre un freno alle politiche di sovvenzioni agricole concesse agli agricoltori nordamericani ed europei che danneggiano le nazioni più povere. Ma gli occidentali sono pronti a fare concessioni soltanto se Brasile, Cina e India si impegnano a ridurre i dazi doganali che frenano la penetrazione dei loro prodotti industriali nei mercati del Sud del mondo. Più che accordi sembrano essere ricatti veri e propri.
"Quello che continua a sbalordire - secondo Marelli - è proprio il fatto che non si consideri come le economie di Ue e Usa negli ultimi cinquant'anni si siano rafforzate con un forte incremento del settore agricolo grazie a uno strettissimo e fortissimo protezionismo, e si continui a invocare la liberalizzazione delle economie per impedire un minimo di protezionismo da parte dei Paesi poveri. Questo nodo da sciogliere è a mio avviso tra le cause principali del fallimento del negoziato: un ostacolo ipocrita e incoerente che addirittura compromette la riuscita del Doha Round che dovrebbe chiudersi a dicembre". E secondo molti, in assenza di un'alternativa concreta, resta l'ultimo debole baluardo contro legge del più forte e della definitiva affermazione della linea degli accordi bilaterali dentro i quali il potere negoziale dei Paesi in via di sviluppo è nullo rispetto a quelli dei paesi sviluppati.
Per Jeremy Hobbs, direttore di Oxfam International, "è una grandissima delusione. In un momento in cui il prezzo degli alimenti e del petrolio aumenta e le prospettive economiche globali sono incerte, le popolazioni povere del mondo sono sempre più vulnerabili. Un accordo commerciale decente avrebbe dato loro una possibilità per non aggravare la povertà".
Secondo Aftab Alam Khan di ActionAid, "La responsabilità del fallimento è tutta di Stati Uniti e Unione Europea, che non riescono a pensare oltre gli interessi delle loro enormi imprese transnazionali che vogliono accaparrarsi sempre più opportunità di mercato nei paesi poveri. Che gli Stati Uniti e l'Unione Europea accusino Cina e India per il fallimento è ridicolo".
Ma in questa tornata del Doha Round non sono solo le divergenze tra Nord e Sud del mondo ad essere in evidenza. Anche quelle tra Usa e Ue. Peter Mandelson, commissario per i commercio dei 27, ha detto che i colloqui sono stati viziati anche da un programma di sussidi agricoli quinquennali da parte degli Usa che rappresenta "uno dei piani di incentivi agli agricoltori americani più reazionari della storia degli Stati Uniti".
Nonostante l'ammissione del fallimento, una nota pubblicata sul sito del Wto indica anche le "convergenze" che sarebbero emerse su 18 dei 20 temi in agenda; decisivi per il fallimento dei colloqui - si legge nel comunicato - si sono invece rivelati i contrasti sull'entità degli aumenti delle importazioni e degli abbassamenti dei prezzi necessari per far scattare i meccanismi di salvaguardia dei mercati interni, cioè la creazione di un meccanismo di protezioni speciali che permetta ai paesi in via di sviluppo di aumentare le tariffe sulle importazioni agricole quando raggiungono un certo livello e cominciano a minacciare la sussistenza degli agricoltori più poveri.
E nei commenti di diplomatici e ministri dei paesi emergenti e del sud del mondo prevalgono toni molto critici. Uhuru Kenyatta, vice-primo ministro del Kenya alla guida della delegazione africana a Ginevra, ha affermato che "lo stallo delle trattative minaccia in modo grave la lotta contro la povertà; sconcerto è stato espresso anche da diversi altri ministri africani, che hanno denunciato un'egemonia sui negoziati da parte di sette "grandi", Unione Europea, Stati Uniti, Giappone, Australia, Cina, India e Brasile". Il negoziatore sudafricano Xavier Carim ha sottolineato che la proposta di compromesso presentata da Lamy comporta per Pretoria "un prezzo esorbitante", senza per di più garantire alcuna apertura dei mercati europei alla produzione agricola nazionale; differente la posizione del Brasile, favorevole a un accordo anche perché - sottolinea il direttore dell'Associazione nazionale per il commercio con l'estero, José Augusto Castro - non ha sottoscritto "alcun accordo bilaterale con i principali attori internazionali". Quasi a mantenere una porta aperta per il futuro, Lamy ha sostenuto che il mancato raggiungimento di un accordo non implica la fine del ciclo di Doha e che ora bisogna "lasciar posare la polvere".
E mentre tutti discutono su numeri e percentuali di apertura dei mercati la Campagna per la riforma della Banca Mondiale commenta così il vertice di Ginevra: "In un momento in cui il problema è di sfamare la gente, inquinare meno e trovare un modo di vivere carbon free, non abbiamo bisogno di aumentare il flusso di merci che girano per il pianeta, piuttosto avremmo bisogno di farle girare (e inquinare) di meno, favorendo che ciascuno innanzitutto coltivi il necessario per i propri consumi (così sarà meno a rischio di aumenti sui mercati internazionali). Piuttosto che imporre tagli, il WTO potrebbe negoziare che chi vuole può mettere i dazi che vuole sui prodotti che un paese sussidia cosicché l'effetto dei sussidi non rovini i mercati e potrebbe regolare i mercati facendo in modo che non possano esistere monopoli e oligarchie di corporation che li distorcono, potrebbe favorire l'occupazione, il rispetto dei diritti e l'ambiente. Nei momenti di crisi serve rinnovare non riproporre una minestra riscaldata e così annacquata da non aver più né sapore, né effetti benefici".
Se n'è accorto un attento economista come Domenico Siniscalco che su 'La Stampa' di oggi commenta così il fallimento: "La globalizzazione, che nelle premesse e nelle promesse doveva favorire tutti, ha finito per escludere molti dai propri benefici, con ampliamento dei divari e delle disuguaglianze nei Paesi ricchi come in quelli emergenti. Più di recente, a fianco della questione distributiva ha mostrato gravissime pecche sul piano dell'efficienza, generando crisi finanziarie e reali in pieno dispiegamento. Tutto questo, pur nell'inevitabilità delle crisi, mostra l'insostenibilità del modello di sviluppo che è stato adottato nell'ultimo decennio. Se vogliamo salvare la libertà degli scambi, con i vantaggi che comporta, occorre rivederne le istituzioni economiche e finanziarie".
Secondo Siniscalco "la sfida, per i liberali, è impegnativa: occorre salvare il mercato da se stesso". Per noi,più prosaicamente, è tempo invece di ripensare il "mercato" e lo "sviluppo".
Elvira Corona